Santi, alligatori e ombrelloni: il fascino delle leggende
Tempo d’estate, tempo da vivere (anche) alla scoperta di tradizioni in terre altrui.
A rendere pittoresco un territorio ci sono sicuramente le leggende, storie con un nucleo vero su cui la cultura popolare ha poi aggiunto, ampliato, ricamato arricchendo il tutto anche con particolari provenienti da altre culture.
La leggenda, stando all’etimologia della parola, era, al principio, una vicenda edificante di questo o quel santo degna appunto di essere letta ma col tempo è finita per indicare la spiegazione fantastica di persone, luoghi e cose che caratterizzano questa o quella zona.
La mente umana non fa salti, non tollera il vuoto e quindi, prima di internet, le risposte si creavano e si creano ancora oggi, a dire il vero; le leggende metropolitane, come ricordava una vecchia canzone di Elio e le Storie tese, ne sono la dimostrazione.
Quanti di voi hanno ancora sentito, solitamente in estate, di alligatori nelle fogne, del tenero cagnolino che si rivela un ratto o della bella ragazza accompagnata a casa alla sera che, il giorno dopo, si scopre essere morta da anni.
La leggenda dunque è una forma per raccontar(si), sempre attuale, mossa ieri dal bisogno di capire, oggi dal gusto per quel mistero che sfugga al nostro mondo così razionale, una maglia rotta attraverso cui intravedere un senso altro, una disturbata divinità.
Ma chi creava e crea le leggende? La cultura popolare. Ma cosa vuol dire cultura popolare? La cultura non è solo fatta da libri, quadri, musei ma, come insegna l’antropologia, è l’insieme di credenze con cui un popolo, nel suo insieme, interpreta la realtà e racconta se stesso.
La cultura è da sempre una circolazione di contenuti, alti, bassi: personalmente l’ho sempre paragonata all’acqua che circola nei termosifoni di una casa a più piani.
I creatori delle leggende popolari erano anonimi sì ma persone in grado di dare un senso alle cose e di veicolarlo alla comunità: nelle stalle della mia provincia, Brescia, chi raccontava fiabe e leggende, chi guidava il rito del far filò, era l’esperto/l’esperta della parola e della memoria in quella comunità, come peraltro nelle tribù africane.
E, spesso, queste leggende attingevano a quelle di paesi vicini come di luoghi esotici, arricchite con spunti da chi in paese aveva potuto viaggiare e/o studiare, il prete, il mercante e il marinaio, di solito.
Ecco dunque che le leggende erano frutto di una cultura popolare nel senso di patrimonio di un’intera comunità, dove quotidiano e colto, alto e basso mimetico direbbero gli studiosi, si fondevano in un tutto unico.
Nel paesino montano dove sono cresciuto da piccolo, Civine di Gussago, il passaggio leggendario dei Santi Abdon e Sennen, (per cui vi invito a leggere il saggio sul mio sito in Cose che scrivo) è stato sviluppato secondo lo schema classico dell’evento dato per certo perché a. testimoniato dagli antichi del villaggio, b. secondo certi stilemi ovvero cavalli rigorosamente bianchi c. evento miracoloso: in questo caso nascita di pozza d’acqua sempre piena d’acqua anche nei periodi di carestia.
Con delle ricerche storiche che si è scoperto? Che nel Settecento, secolo in cui arrivarono questi Santi a Civine, il dotto del paese era un sacerdote legato all’ambiente del vescovo di Brescia a sua volta devoto di Abdon e Sennen.
Il meccanismo della persona di fiducia per veicolare la leggenda è fondamentale anche oggi: ricordate “Mio cugino”, la canzone di Elio e le Storie tese? Le leggende metropolitane funzionavano proprio perché a raccontarle c’era “Mio cugino” anzi “A mio cugino”.