La bellezza del bofonchiare: elogio dell’etimologia

 In Penne e piume

Stiamo perdendo vocaboli per strada, come ci informano con dovizia di particolari indagini periodiche, allarmi di insigni studiosi o, anche, i verbali dei carabinieri.

Un maresciallo mi ha raccontato come in trent’anni di carriera abbia visto passare le confessioni dei presunti colpevoli da articolate riflessioni sul proprio atto criminale a frasi del tipo “ho visto nero nella mia testa/ non ci ho più visto” seguiti da silenzi imbarazzanti per imputato, inquirenti e avvocati.

Silenzi imbarazzanti in crescita esponenziale dietro alle motivazioni di una coltellata, di una coppia che si lascia oppure alla qualunque cosa richieda un minimo di articolazione; sono coperti come natural vergogne solo da frasi miserrime o da emoticon, come dire il nulla mischiato con il niente.

Che fare? Domanda tragica per eccellenza. Non lamentarsi, magari dovendo chiedersi che emoticon sia più indicato per esprimere il tutto.

Riprendere il gusto per le parole e le loro sfumature, leggendo leggendo leggendo, da Dumas alla Gazzetta dello Sport.

Leggere però non basta, perché è in agguato la supponenza e l’analfabetismo funzionale, un’accoppiata letale come l’uomo tigre e Antonio Inoki nel wrestling.

Apro parentesi: l’analfabetismo funzionale è quella cosa per cui leggo ma non capisco, quella cosa per cui pattino magari con grazia sulle parole ma senza andare in profondità.

Ed invece se voglio migliorare la qualità della mia vita devo capire le parole, perché come diceva Isocrate, un oratore dell’antichità, se parlo correttamente penso bene e vivo meglio.

Converrete con me che dire “Sei bellissima/o” è una cosa ma potersi permettere un “Sei affascinante”, sapendo quel che sto dicendo, mette quella marcia in più al vostro sentimento. E non c’è dopamina che tenga davanti ad un bel complimento, tranne che la mala fede di chi lo riceve o di chi lo fa.

E per capire bene le parole oltre a leggerne o a rileggerne il significato, è utile e bello addentrarsi anche in quel mondo meraviglioso che risponde al nome di etimologia ovvero le radici dei termini, la lingua da cui derivano.

Ammetto che è un po’ una mia fissazione ma ultimamente ho riprovato questo piacere andando a cercare, ad esempio, il significato di “bofonchiare” ovvero borbottare con voce bassa ma in maniera costante.

Ecco, vado a vedere l’origine del termine e trovo che il bofonchio in toscano è il calabrone. E ripensando a quei severi animaletti che girano nel mio frutteto con quel suono sordo ma costante del loro sbatter d’ali, ho detto “Ma certo, è così, chi borbotta fa così”.

E l’etimologia ci aiuta a ridare la giusta proporzione anche ai nostri dialetti: prendiamo il Bresciano.

“Ciòs” per dire campo oppure “piò” per indicare una misura agraria derivano il primo da clausum che vuol dire chiuso, da un muro per la precisione, e plodium ovvero l’aratro con cui si arava quel tot di terreno in un giorno.

E questo ci permette di ricordare come questo dialetto abbia solide radici nel latino accanto, sicuramente, ad altri influssi ma che non derivi da astratti furori o leggendari apporti.

Ultimo esempio che riguarda la cronaca, altra fonte di neologismi. Negli anni Settanta andava di moda dire “Sei un togo” cioè uno forte, termine ritornato a fine anni Novanta inizio Duemila. Togo era l’ammiraglio della flotta giapponese che sbaragliò a Tsushima le navi russe.

Le parole nascono, si trasformano, muoiono e talvolta risorgono: l’etimologia viene a dirci che nelle parole c’è vita, la nostra.

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